Insomma, è vero o no che i Millennials bevono meno vino rispetto ai wine lover degli anni ’50 o ’60? Ecco, ogni tanto questo argomento viene fuori, ho una teoria ma ve la dico dopo. Ne parlavo già in questo post del 2019, ed era già una faccenda vecchia.
I dati ISTAT
I rilevamenti dicono che in realtà nel 2021 il consumo di vino per la fascia dai 25 ai 35 è aumentato, mentre è ancora in diminuzione per i ragazzi dai 18 ai 25. Quindi, un falso problema? Sembra proprio di si, almeno per quel che riguarda i consumi. Vi metto qui il link all’articolo di Marco Baccaglio, che come sempre è fondamentale quando si tratta di numeri del vino.
Diciamo che mancano alcuni dati fondamentali, ad esempio che tipo di vino bevono i Millennials, e quando, se a cena al ristorante o durante gli aperitivi o a casa quanto tornano da università o lavoro. La questione Vino e Millennials sembra sempre aperta mentre prima o poi andrebbe chiusa.
Innanzitutto se davvero l’argomento interessa, e quindi il mercato del vino si sta ponendo la domanda come fare a coinvolgere, se già non lo sono, i consumatori più giovani, i wine lovers trentenni, andrebbero raccolti un po’ di dati. Questa come sappiamo è un’abitudine che produttori, distributori e retailer non hanno, a meno che non si parli di quanto producono, di quanto esportano, se è aumentata o diminuita la superficie vitata. Quindi rischiamo di parlare di cose che non esistono o che in ogni caso sono inquadrate non benissimo.
Vino e Millennials non si sono mai separati
Comunque questo post potrebbe finire anche qui, se vogliamo, e la risposta è no, Vino e Millennials è un falso problema; i millennials non bevono meno vino delle generazioni più anziane, hanno ricominciato a stappare bottiglie e sono tutti contenti, tutti i partecipanti della filiera.
Poi leggo il post di Fabio Piccoli su Wine Meridian, che si rifà ad un altro post preso su LinkedIn, dove si individua il vero problema, che è quello della comunicazione del vino.
Il post di LinkedIn è piuttosto duro, diciamo, ma individua quella che è la polverosità delle parole usate per parlare di vino, degli strumenti e delle persone che se ne occupano.
Su Instagram ci sono un sacco di foto sul vino, che a volte non raccontano nient’altro che belle situazioni in cui trovarsi con un bicchiere di vino tra le mani. Servono, queste foto? Certo non raccontano niente del vino, non lo spiegano, la storia, il lavoro del produttore, la storia del territorio. Ma a chi guarda quella foto, a chi segue la persona che l’ha messa in rete, forse non interessa nemmeno, tutto questo.
Probabilmente le frasi e le definizioni imparate ai corsi da sommelier hanno fatto il loro tempo.
Insomma, i wine lover sono già una nicchia nei consumatori, e al loro interno ci sono talmente tanti altri piccoli gruppi di appassionati di vini diversi che parlare con tutti è difficile. Quindi abbiamo scoperto un’altra cosa, che però era facile da scoprire, ossia che i consumatori non sono tutti uguali.
L’industria del vino fa finta di niente
La parola ‘consumatori’ è un insieme di tanti target e ad ogni gruppo si deve parlare con un linguaggio diverso
I millennial sono, di gran lunga, una generazione attenta alla salute e l’industria del vino non si sta adeguando, deliberatamente o meno.
Janice williams, pix.wine, 2022
Ecco, pretendere che ad un giovane di 25 o 28 anni interessi sapere tutta la storia del territorio mentre assaggia un bicchiere di vino, è un po’ presuntuoso. Magari gli interessa anche, per carità, ma certo mentre sta facendo un aperitivo con gli amici cerca solo un bicchiere di vino fresco, dissetante, e che magari non gli tronchi le gambe dopo un bicchiere. In quel momento sta con il suo gruppo di amici e non si mette certo a parlare di terroir, di annata o fare un’analisi sensoriale completa.
I giovani non ci ascoltano, che noia!
Il problema che vedo io, ed è semplicemente il mio parere personale ovviamente, è che si pretende di parlare un linguaggio che va bene per tutti, parlare a tutti nello stesso modo. Ma se vuoi attirare i giovani devi parlare seguendo i loro interessi; per parlare del territorio e raccontare aneddoti, non si può usare un linguaggio pomposo e accademico. Non bisogna mica per forza fare i balletti su TikTok, ma la comunicazione va studiata. Forse siamo un po’ rimasti agli articoli delle riviste di una decina di anni fa, o alle parole e frasi fatte di tanti corsi da sommelier.
Millennials drink wine, but their approach is vastly different than previous generations, who chose bottles based on various publications and their scoring systems. Millennials use technology and social media as their first resource for discovering wines; Vivino, for instance, is the most-used wine app in the world with more than 47 million users.
Julia Coney, Washington Post, 2020
Non sarà piuttosto che ci sentiamo infastiditi dal fatto che i giovani non ci ascoltano e parlano tra di loro? Ed anche questa è una cosa del tutto normale, se frequentate le generazioni più giovani. Ci sentiamo forse disturbati che chi per tanti anni ha fatto il guru del vino stia perdendo il proprio appeal, veda diminuire la folla che lo ascolta? E quindi dia la colpa ai giovani che non li ascoltano? Ecco, questo è un tipico atteggiamento da vecchi (ho 60 anni, so quel che dico….)
Nonostante i comunicati ‘ministeriali’, come vengono chiamati nel post di LinkedIn, i giovani stappano bottiglie e si informano; cercano nuovi vini e frequentano gli eventi e le fiere, come sa chiunque partecipi ad almeno un paio l’anno. Ma non si mettono a chiedere la densità di impianto o se la botte è in ciliegio o rovere di Slavonia.
La peer review del vino
Io vedo la questione al contrario, i giovani bevono vino nonostante la comunicazione non li aiuti a scegliere il vino migliore per l’occasione, e quindi fanno da soli. Scavalcano tutta la filiera e vanno dritti alla fonte.
Seguono i produttori su Instagram e scelgono il vino in base alla foto migliore o ai commenti degli amici, guardano quello che si dice su quei marketplace che mostrano i commenti di altri consumatori, come si fa quando si prenota un albergo, un ristorante, o si compra qualcosa sui siti online. Guardano insomma cosa dicono altri consumatori, una specie di peer review del vino, una critica fra pari.
Sono interessati alla sostenibilità ambientale di una cantina, agli effetti del vino sulla salute, cose molto più concrete del numero di riconoscimenti olfattivi.
Si muovono per andare a visitare le cantine e parlano con i produttori, ascoltano le loro storie e programmano le vacanze. Budget permettendo, naturalmente. Fanno quel che fanno normalmente, utilizzano gli strumenti con cui sono nati per bypassare, per aggirare tutto quel che sta fra la fonte dell’informazione e loro stessi. Stanno facendo disintermediazione, arrivano direttamente al punto perché oggi è possibile farlo; e vanno nei bar a bere cocktail o anche vino perché l’ambiente è molto più giovane di una sala di degustazione. La frase che ‘il vino è un prodotto culturale’, pur vera, è diventata un boomerang.
No, le giovani generazioni il vino non lo hanno abbandonato, hanno abbandonato la comunicazione, del vino.
Le guide sono morte, le riviste sono morte e anche i blog non si sentono molto bene.
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